Voir Naples et pourrir
di Marcelle Padovani
Pubblicato in Francia il 16 maggio 2013
Traduzione di Claudia Marruccelli
Il commissariato San Gaetano si trova ad affrontare una serie di crimini inspiegabili, in una Napoli inedita, piovosa, malinconica e grigia, una città diventata “diffidente, oscura, indecifrabile”, come dice l'ispettore Giuseppe Lojacono, 45 anni. Tre giovani, le cui origini sociali e i luoghi di residenza non hanno alcun legame apparente, sono stati assassinati in meno di dieci giorni.
Nessuna relazione con la camorra, la regina regina locale del crimine, ne’ con un eventuale delitto passionale. Un’unica arma: una banalissima calibro 22, fa pensare che il colpevole non sia un professionista. Un unico indizio: dei Kleenex impregnati di lacrime. La stampa s’impadronisce dell’enigma e ricama su questi fazzoletti bagnati: "lacrime di coccodrillo" versate da un assassino che si è commosso prima di "smembrare le sue vittime”. Questo giustifica il suggestivo titolo scelto da Maurizio De Giovanni, “Il metodo del coccodrillo”, suo settimo romanzo poliziesco dal 2005, data a partire dalla quale ha raccolto numerosi premi letterari e occupato i vertici delle classifiche italiane.
Ma non è la sola particolarità di questo giallo napoletano, che arriva oggi nelle librerie francesi. Sapevamo che ogni grande città o regione italiana aveva il suo proprio autore di thriller - Camilleri per la Sicilia, De Cataldo per Roma, Lucarelli per Bologna, Carofiglio per Bari, Todde per Cagliari - e ora anche Napoli ha anche il suo autore autoctono, in grado di riprodurne il lessico e le atmosfere.
"Ciò che domina la mia città, è l'odore della sofferenza”, dice Maurizio di Giovanni fin dall'inizio. Pur vivendo da sempre in quartieri chic, il suo vero nome infatti è Maurizio De Giovanni Di Santa Severina, lui Napoli la conosce bene. Ed è in questo mondo “borghese”, che racchiude il teatro San Carlo, Piazza Plebiscito, il lungomare di via Caracciolo, il caffè Gambrinus - un vero e proprio monumento - e via dei Mille, che si intrecciano i suoi racconti. "Napoli per me è come una madre invadente e rumorosa, in definitiva impresentabile, ma inevitabile".
Qui nasce questo romanzo doloroso, scevro da qualsiasi folklore e da qualsiasi tentazione gastronomica o sessuale, a differenza dei gialli che si rispettano. L'ispettore è un uomo attirato da due donne estremamente diverse: l’affascinante magistrato, alta e snella, con cui svolge le sue indagini, e la prosperosa proprietaria di una trattoria dove abitualmente cena. Anche se la sua unica vera preoccupazione è sua figlia, che vive in Sicilia in compagnia di una moglie che ha abbandonato il tetto coniugale, quando Loiacono è stato accusato da un "pentito" di aver passato delle informazioni alla mafia.
“Trasformare la sofferenza in cultura” Alla fine del libro non si scoprirà se queste accuse erano fondate, ma sono servite per fare dal nostro ispettore un reietto, un uomo che soffre. Un uomo anziano e imperscrutabile alla stregua dell’assassino, parimenti segnato da qualche tragedia personale e capace di girovagare senza sosta per la città fino al mattino, moltiplicando le indagini e i controlli metodici, sempre rimanendo nell’ombra.
Il male di vivere è sicuramente l'ingrediente principale di questo libro. E di primo acchito sembra strano che si svolga nella città dei mandolini, dei pini, delle canzoni popolari e della pizza. Ma si capisce subito, parlando con De Giovanni, che invece la vera specialità di Napoli è quella di saper da sempre “trasformare la sofferenza in cultura”. Ed è a causa di questo dolore comune che si stabilirà una comunicazione "intellettuale" tra il boia e il suo inseguitore.
"Il confine tra bene e male è molto sottile," ripete di Giovanni, che sta scrivendo il suo ottavo thriller. Come il suo ispettore, ha uno sguardo penetrante, freddo, e come lui ha anche scelto di condurre una doppia vita: la prima metà della settimana, fa il direttore di banca, e l’altra metà seduto alla sua scrivania racconta le "anime nere" che abitano la città, un tempo la “capitale culturale” italiana.
martedì 28 maggio 2013
giovedì 2 maggio 2013
Il potere secondo Cacciari e il cambiamento degli italiani
La machine théologique-politique qui gouverne l'Italia
La macchina teologico-politica che governa l’Italia
Massimo Cacciari è un filosofo considerato liberale e populista dall’Italia social-democratica. E’ stato sindaco di Venezia. Wikipedia parla di una sua relazione sentimentale con l’ex-moglie di Berlusconi. Il suo ultimo libro, “Il potere che frena” (Ed. Adelphi) è un best-seller editoriale.
Della seconda lettera di San Paolo ai Tessalonicesi, precisamente della forza politico-religiosa che frena il dilagare del male e il trionfo del bene, Cacciari fa il suo obiettivo. Scrive a tal proposito un commento filosofico e sacerdotale, o meglio: prende in esame l’eredità cristiana che, secondo Nietzsche, è “la più alta forma immaginabile di corruzione”.
Numerosi filosofi italiani fanno la corte al potere. Cacciari non ne è esente. Il suo discorso, dai forti toni accademici, è prigioniero di un metodo per nulla innocente nel paese del papato, un metodo che sfugge i colpi di martello nietzschiani: “Combattere le bugie più sacre ancor più che qualsiasi altra bugia.”
Prendendo a testimonianza la forza reazionaria dilagante, Cacciari affronta i legami tra teologia e politica, più per combatterne la nevrosi che per metterli in discussione. Poco gli importa che i presunti stati superiori, quelli che la Chiesa valorizza, siano delle credenze deliranti: “Credo perché è assurdo” (Tertulliano). Ha costruito piuttosto un’interpretazione sulla connaturalità tra sovranità politica e teologica. Non secondo le teorie di Freud, per il quale la religione è dipendente della nevrosi infantile, o secondo quelle di Carl Schmitt, per cui i concetti politici sono di origine teologica. Ciò che il filosofo sostiene è un rapporto ambivalente fatto di obblighi e di compromessi tra sovranità religiosa e politica, in cui credere significa non voler sapere.
Figlia millenaria della chiesa romana, la politica in Italia è prigioniera di superstizioni che agiscono all’interno delle masse e dei governanti. Gli antichi dei sopravvivono celati dalla maschera dei nuovi. Cacciari adula gli uni e gli altri senza aprire gli occhi. Evita i pensatori non convenzionali che frugano tra ciò che per venti secoli hanno frainteso, come per esempio Giordano Bruno e, più vicino a noi, gli psicanalisti. E non si azzarda nell’analisi del non sapere, ancor meno in quella del sapere che non conosce: l’inconscio in senso freudiano.
Leggendo questo filosofo, non è chiaro chi nella religione o nella politica incarna la “vera Circe dell’umanità, la peggiore forma morale della volontà di mentire”. Una difficoltà insolubile è infatti al centro delle sue elucubrazioni. La sua retorica blocca la scomoda apertura e piega il dibattito di fondo che mette in contrasto, fin dall’inizio dell’era cristiana, il parlare di amore della verità con la menzogna politico-clericale.
In Italia, il potere che idealizza, sia esso politico o ecclesiastico, tiene il passo alle forze che egli dice di combattere, inadatto a promuovere una lotta di liberazione. In lui, sovranità “spirituale” e “laica” si intrecciano l’un l’altra inzaccherandosi. I principi neri non sono mai bianchi. La maggior parte dei politici sono credenti. Il godimento sessuale non si fa sfuggire nessuno alla sua influenza: che si tratti di un prete, un Papa o un Cavaliere. Gli scandali parlano da sé. Politica e religione governano per i propri interessi. Restare in vita è il loro scopo. Dichiarare “Dio è la verità” – che si tratti di denaro o santità – è più importante rispetto al dichiarare “la verità è Dio”.
Le proposte di Cacciari hanno un merito: rendere tangibile l’impostura della politica giudaico-cristiana. Agostino, Dante e Dostoevskij sono gli scrittori che egli mette in mezzo e sconfigge. Uno vuole detronizzare la sacralità del potere imperiale, l’altro lotta contro il potere ecclesiastico e, nel XIX secolo, il terzo vuole rievocare l’Anticristo. Nello stesso periodo, in Italia vede la luce la personificazione delle altezze e delle profondità senza eguali, né superman né fascista: Zarathustra-Nietzsche. Con lui, la verità dell’analisi affronta i furfanti e le scelleratezze; smonta, come mai prima, gli ingranaggi della macchina teologico-politico.
Nel paese dei Papi, il potere che rallenta è il sintomo. Appoggia la fondatezza del sistema e contemporaneamente proclama che deve cambiare. Tra il messaggio di Gesù, la Chiesa cattolica e i politici italiani, di sinistra e di destra, che fanno la comunione di domenica, c’è più di una ipocrisia, più di una decadenza. Solo una parola di verità, paragonabile a quella di uno Zarathustra, potrebbe infrangere i codici in decomposizione.
Uno può sognare, ma non deve confondersi. Chiedere agli italiani di modificare le proprie credenze è difficilmente immaginabile. La maggior parte non ha alcuna intenzione di cambiare il proprio rapporto di soddisfazione con la religione, la politica e, ultima ma non meno importante, con la donna. In Italia, nessuna riforma profonda e duratura può emergere senza passare prima attraverso un cambiamento individuale. “Sono gli uomini che devono cambiare,” mi ha detto una volta un albergatore di Capua, non lontano da Napoli.
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