venerdì 29 giugno 2012

Mafia: “Mio padre ucciso per ‘ragioni di stato’”

Mafia: "Mon père a été tué pour 'raison d'Etat'"


Chi ha assassinato nel 1992 il giudice siciliano Paolo Borsellino, icona della lotta antimafia? Il suo assassinio, 57 giorni dopo quello del giudice Giovanni Falcone, sconvolse l’Italia. Per la prima volta in 20 anni, il figlio del giudice Borsellino affida in esclusiva all’Express il suo sfogo, e fa riferimento alla pista del tradimento perpetrato ai più alti vertici istituzionali.

Il giudice Paolo Borsellino davanti alla bara dell'amico Giovanni Falcone, il primo giudice italiano che osò sfidare la mafia, assassinato il 23 maggio 1992. Anche Borsellino verrà ucciso dalla mafia 57 giorni dopo, il 19 luglio

E’ un ventesimo anniversario dal sapore amaro. In questi giorni l’Italia ricorda i suoi eroi della lotta anti-mafia, Falcone e Borsellino. Due giudici che hanno vissuto isolati, prima di essere canonizzati da una morte velata di ombre. Il 23 maggio 1992, 500 chili di esplosivo disintegrano lungo l’autostrada l’auto di Giovanni Falcone. Il suo amico Paolo Borsellino gli sopravviverà solo 57 giorni, fino al 19 luglio. Sapeva di essere stato condannato a morte dalla mafia, ma non soltanto da lei.
I processi che hanno fatto seguito all’attentato contro Borsellino hanno accusato Cosa Nostra. Ma nel 2008 le rivelazioni di un pentito, Gaspare Spatuzza, hanno costretto i magistrati siciliani a riaprire l’inchiesta, svelando un terribile buco nero giudiziario… Lo scorso ottobre sono stati rilasciati sei condannati all’ergastolo che si trovavano  in carcere dal 1993. Erano innocenti. Colui che si era autoaccusato dell’attentato, Vincenzo Scarantino, ha rivelato ai giudici che la sua confessione gli era stata estorta con la forza dall’ex capo della Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera. Perché? Con la complicità di chi? E chi ha ucciso Borsellino dunque?
Emerge un nuovo agghiacciante scenario. Uno scandalo di Stato, sullo sfondo di trattative segrete tra governo e mafia, di cui erano informate anche “le più alte autorità”, dicono i magistrati oggi. La settimana scorsa sono stati messi sotto inchiesta, oltre ad alcuni boss mafiosi, due ex ministri, quello della Giustizia Giovanni Conso e degli Interni Nicola Mancino.
Per vent’anni Manfredi, 40 anni, figlio del giudice Borsellino, ha sempre rifiutato qualsiasi intervista. Aveva scelto la via del silenzio e del riserbo, condivisa da sua madre e le sue due sorelle, oltre al rispetto per le indagini in corso. Finalmente, a seguito delle numerose richieste del settimanale L’Express, ha acconsentito ad un incontro nella sua casa di Palermo. Anche lui è un servitore dello Stato, un commissario di polizia. Ecco il suo sfogo a mezza voce, in privato, in esclusiva, sul sacrificio di suo padre.

A distanza di vent’anni, non si sa chi ha ucciso suo padre, chi ha ordinato l’assassinio né perché l’inchiesta iniziale è stata deviata. Come vive questa situazione?
Sin dai primi processi negli anni ‘90, mi sono reso conto che questi erano stati istruiti in maniera sospetta. Me ne sono reso conto così nettamente che né mia madre né le mie sorelle né io abbiamo sentito il bisogno di partecipare ad una sola udienza. Tra i falsi pentiti c’era quel Vincenzo Scarantino, un piccolo boss di quartiere, di cui ci siamo chiesti come potesse parlare in maniera così precisa dell’assassinio di mio padre… Sono anni che crediamo che dietro l’attentato non ci sia solo la mafia. E oggi più che mai penso che mio padre sia stato ucciso per “ragioni di stato”, che sia stato letteralmente pugnalato alla schiena, tradito, messo in condizione di non nuocere più a coloro che, all’interno dello Stato, stavano portando avanti un “dialogo” con l’anti-Stato, la mafia.

Secondo i magistrati che hanno riaperto l’inchiesta, suo padre sarebbe stato in effetti di ostacolo alle trattative allora in corso tra mafia e Stato, avviate da alcuni politici minacciati da Cosa Nostra che volevano salvarsi la pelle e fermare le stragi in Italia. E piegandosi alle richieste della mafia. Che cosa sapeva suo padre di questa presunta trattativa?
Un mese prima di morire, mio ​​padre accennò solamente davanti a mia madre ad una “conversazione tra la mafia e membri traditori dello Stato”. E il giorno prima di morire, a casa, le confidò: “La mafia mi ucciderà solo quando altri lo consentiranno …”

Queste rivelazioni sua madre le ha fatte solo due anni fa ai magistrati di Caltanissetta, Sergio Lari e Domenico Gozzo, che hanno svelato il “colossale depistaggio” delle indagini. Perché ha aspettato così tanto tempo prima di confidarsi?
Se non lo ha fatto prima non è perché non ricordasse, ma dopo aver perso il marito aveva paura per i suoi figli …

Recentemente, un colonnello dei carabinieri ha rivelato che suo padre era al corrente, alla fine di giugno del 1992, che stavano preparando un attentato contro di lui e che scelse di sacrificare se stesso per proteggere la sua famiglia. Ne eravate a conoscenza?
Salvarci era il pensiero fisso di mio padre. Ogni tanto eludeva le procedure di sicurezza per lanciare un messaggio a Cosa Nostra, tipo: “Vedete, non avete bisogno di far saltare in aria un’autostrada o di prendervela con miei figli e mia moglie. Prendete me, ma risparmiate ciò che ho di più caro al mondo”. Infatti, tre giorni dopo la morte di Falcone,  ci ha riunito una sera intorno al tavolo e ci ha detto: “Ora che Giovanni è morto, niente sarà più come prima. Non dovete essere coinvolti in qualcosa il cui obiettivo sono soltanto io…”

Il figlio del giudice Borsellino, Manfredi, 40 anni e commissario di polizia in Sicilia

Tutto è cambiato,  quindi, dopo la morte di Falcone il 23 maggio 1992…
Falcone è spirato tra le braccia di mio padre e da quel giorno lui non è più stato lo stesso. Il suo senso dell’ironia, i suoi scherzi, il suo sorriso, svanirono. Durante quei 57 giorni che gli rimasero da vivere, mi ricordo che lavorava senza sosta. La morte di Falcone lo aveva portato ad abbandonare quasi tutto. Ma mio padre non voleva lasciare impunito questo omicidio, voleva portare a termine il compito che il suo amico era stato costretto ad  interrompere. Tornava a casa stanco morto, trovando la forza sufficiente per cenare con noi, un rito sacro per i siciliani. Spesso si addormentava sul divano, con il televisore acceso. Al tempo stesso lui, che era così affettuoso e paterno, ci preparava al distacco allontanandoci ogni giorno di più. Ci dicevamo: “Papà è stanco …”. Solo in seguito abbiamo capito, grazie a Padre Cesare Rattoballi… Pochi giorni prima di morire, mio ​​padre gli aveva chiesto di fare la comunione nel suo ufficio e gli aveva detto: “Padre, i miei figli sono la mia vita, vorrei abbracciarli… Mi devo trattenere… E’ un peccato? ”

Che cosa significa?
Se a questo aggiungiamo il fatto che in seguito hanno indirizzato le indagini su persone che nulla avevano a che vedere con l’attentato, allora è chiaro che non vi era alcuna volontà politica di salvare il mio padre. Lui costituiva un problema. E mio padre ha servito questo Stato fino all’ultimo giorno della sua vita. Per montare dei processi-farsa, per costruire dal nulla false verità giudiziarie, per condannare definitivamente all’ergastolo per mafia e terrorismo persone totalmente innocenti, i falsi pentiti e le fantasiose ricostruzioni delle indagini non bastano. Serve anche la collaborazione, più o meno consapevole, di avvocati, procuratori, giudici di Corte d’Assise, Corte d’Appello, giudici di pace, procuratori generali,  fino ad arrivare ai giudici della Corte di Cassazione. Ossia un numero enorme di persone che, a vario titolo, prendono parte alla creazione e allo sviluppo di una sentenza penale.

Suo padre ha anche scoperto per caso un attentato progettato contro di lui  …
La procura di Palermo era un campo minato, guidata dal procuratore Giammanco. Questi ha nascosto a mio padre una nota dei ROS che lo vedeva, assieme ad altri, come obiettivo di un attentato imminente. Mio padre lo venne a sapere dal Ministro della Difesa Andò, che incontrò per caso all’aeroporto. Andò era convinto che mio padre ne fosse informato, evidentemente, ma non era così. Mio padre, fuori di sé, si recò da Giammanco che iniziò a balbettare, affermando che non aveva avuto occasione di dirglielo… Dopo la morte di mio padre otto sostituti procuratori, oggi direi che erano pochi – Roberto Scarpinato, Domenico Gozzo, Antonio Ingroia… – firmarono un documento con cui chiedevano espressamente il trasferimento di Giammanco, minacciando le proprie dimissioni. Lo stesso Gianmanco chiese poi di essere trasferito alla Cassazione …
Il giudice Borsellino durante una fiaccolata per ricordare il suo amico Falcone
 
A metà giugno, suo padre probabilmente comprende di essere stato tradito. Il 15 confida a sua madre i suoi dubbi sul generale Subranni, a quel tempo comandante del ROS Carabinieri, che lavorava da anni con lui.
Raccontò a mia madre di aver scoperto che Subranni era “punciutu”, cioè in gergo mafioso venduto a Cosa Nostra. Secondo mia madre – che lo ha riferito ai magistrati – mio padre, che aveva una grande ammirazione per i carabinieri, ne rimase sconvolto. Ma l’ex generale Subranni, che ha osato insinuare che mia madre potrebbe soffrire di Alzheimer o altra patologia che può intaccare l’affidabilità dei suoi ricordi, per quanto mi riguarda non merita ulteriori commenti.

Un magistrato ha anche rivelato di aver visto suo padre scoppiare in lacrime nel bel mezzo di una conversazione, alla fine di giugno: “Un amico mi ha tradito …” Lei sa di chi potesse parlare?
No… Ma per arrivare a piangere, significa che mio padre ne era profondamente ferito, perché l’amicizia era per lui un valore sacro.

In quei primi giorni di luglio del 1992, suo padre interrogò il pentito Gaspare Mutolo. Mutolo gli parlò della collusione con la mafia di Bruno Contrada, ex capo della Squadra mobile di Palermo e  numero tre del Sisde, e Leonardo Messina,  che iniziò a svelare il meccanismo delle gare d’appalto in Sicilia, che coinvolgeva boss mafiosi, politici e imprenditori. Lei era a conoscenza di ciò che si dissero?
Un giorno di luglio, prima di pranzo, mi ricordo in effetti che mio padre accennò a un importante “uomo d’onore,” autista per anni di Totò Riina, che aveva deciso di collaborare con lui. Ci fece capire che le sue rivelazioni avevano forse la stessa  importanza di quelle fatte, anni fa, da Tommaso Buscetta [il pentito storico di Cosa Nostra, "consegnato alla giustizia" dal giudice Falcone, N.d.A.]. Ci disse che si trattava di Gaspare Mutolo, ma questo è tutto.

Proprio mentre stava interrogando Gaspare Mutolo a Roma il 1 ° luglio, suo padre ricevette una telefonata in cui gli veniva chiesto di incontrare il Ministro degli Interni Nicola Mancino, che abbiamo appena citato. Dopo questa telefonata, Mutolo racconta di aver visto suo padre, pallido e molto turbato, tenere due sigarette accese, una alla bocca e un’altra tra le dita. “Mi ha detto di aver incontrato il ministro Mancino, ma anche Bruno Contrada e Vincenzo Parisi” ha dichiarato nella sua deposizione. Tuttavia l’ex ministro Mancino, che è sotto inchiesta dalla settimana scorsa in riferimento alle trattative tra mafia e Stato, ha sempre negato di aver incontrato suo padre quel giorno. Cosa sa di questo episodio?
Mio padre teneva un’agenda grigia in cui annotava a fine giornata le persone che aveva incontrato, i suoi movimenti e anche le sue spese. Mio padre l’ha tenuta fino al 17 luglio. Alla pagina del 1° luglio, oltre alle notizie sui suoi spostamenti quotidiani a Roma dove conduceva l’interrogatorio di Mutolo, la scritta “Mancino” è chiaramente leggibile nel tardo pomeriggio (preceduta da “Parisi”, il capo della polizia). Questo significa che ha sicuramente incontrato l’ex Ministro e il capo della polizia nel tardo pomeriggio del 1° luglio. Questa agenda è stata consegnata ai magistrati di Caltanissetta molto tempo fa. Non ho niente da aggiungere riguardo lo stato d’animo di mio padre dopo l’incontro con Mancino, sul fatto che potesse essere o meno preoccupato, perché quel giorno non eravamo a Roma.

Ma suo padre non si confidava con lei?
Era ossessionato da ciò che ci sarebbe potuto accadere mentre lui era in vita, ma soprattutto quando non ci sarebbe più stato. Perciò non ci voleva rendere depositari di certe verità. Ed è stato molto attento a non fare confidenze fino all’ultimo giorno della sua vita. Questo è stato anche il motivo per cui aveva preso l’abitudine di scrivere tutto in un’altra agenda, questa invece rossa…

La famosa agenda rossa che aveva con sé il giorno dell’attentato, sparita in circostanze misteriose?
Sì. Dopo l’assassinio di Falcone, mio padre cominciò a scrivere molto di più in questa agenda rossa, sul suo lavoro, le sue valutazioni, ciò che lui stesso aveva intenzione di raccontare ai magistrati di Caltanissetta di allora, che stavano indagando sulla morte del suo amico. Ha atteso a lungo di essere convocato come testimone. Cosa che non è mai avvenuta… E’ possibile che vi abbia scritto quello che voleva dire ai magistrati e che non poteva confidare alla sua famiglia. Senza  dubbio fatti compromettenti per molte persone. Se questa agenda esiste ancora, potrebbe rappresentare per chi ne è in possesso un incredibile strumento di ricatto.

Dopo l’attentato vi hanno in effetti restituito la sua ventiquattrore, da cui però questa agenda era scomparsa.
Sì,  è stato Arnaldo La Barbera,  capo del gruppo Falcone-Borsellino, incaricato delle indagini sugli attentati del 1992, a riportarcela. [Il superpoliziotto La Barbera oggi è ora sospettato di aver deviato l’inchiesta. Ma è morto nel 2002 e fu appurato tra l’altro che apparteneva ai servizi segreti, N.d.A.]. Venne a casa nostra. Gli chiedemmo dell’agenda. Lui ci rispose in maniera aggressiva che quell’agenda era frutto della nostra immaginazione…

Avete sempre vissuto con la paura?
Nel corso degli anni eravamo diventati consapevoli che mio padre era nel mirino di Cosa Nostra. Fin dall’assassinio, nel 1980, del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Mio padre fu incaricato delle indagini. I tre assassini, Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia, sono stati assolti al termine di un processo scandaloso e sono stati condannati solo molti anni dopo. A casa, da piccoli, sentivamo fare  i loro nomi, terrorizzati al pensiero di vederli arrivare per uccidere mio padre. Perchè questi tre assassini erano i rampolli delle famiglie mafiose più importanti del tempo, e la famiglia Madonia era uno dei principali alleati dei Corleonesi di Totò Riina, che cominciava a mettere le mani su Palermo. Poi altre paure sono nate con le morti che seguirono, colleghi, collaboratori … Ricordo i momenti drammatici dopo l’assassinio dei giudici Chinnici [1983], Saetta [1988], Livatino [1990], Scopelliti [1991], del generale Dalla Chiesa [1982], dei carabinieri Basile [1980] e d’Aleo, che lo aveva sostituito [1983] … Alla fine, mio ​​padre era circondato da cadaveri. Ma non ha mai gettato la spugna in questo bagno di sangue.

Il giorno dei funerali del giudice Borsellino a cui, per volontà della famiglia, parteciparono solo pochi rappresentanti dello stato

Suo padre ha denunciato più volte in interviste e incontri l’isolamento dei giudici, l’incapacità o la riluttanza della politica nella lotta autentica contro la mafia. Alla fine era un uomo solo, come Falcone…
Mio padre era circondato da amici veri, persone che avrebbero sacrificato la vita per lui. Più che solo, in realtà, era isolato. Già nel 1989, parlando a uno studente in un liceo, disse che “non si sentiva protetto dallo Stato”.

Falcone e lui avevano personalità diverse.
Falcone era una persona più introversa, capace di imprese incredibili sul piano lavorativo, con una preparazione e una memoria straordinarie. Mio padre aveva una personalità più esplosiva, estroversa, era sempre pronto a scherzare, a volte era persino irriverente. Non si prendeva sul serio, possedeva una grande umiltà. Diceva che nella vita era sempre arrivato secondo! Negli studi, nei concorsi, con le donne… Anche se aggiungeva sempre che i primi spesso cambiavano, mentre lui restava al suo posto.

Dopo la morte di Falcone, sarebbe dovuto diventare lui il nuovo procuratore nazionale antimafia, ciò che Falcone non aveva avuto il tempo di diventare?
Mio padre si arrabbiò molto quando seppe dal Ministro degli Interni Scotti [il predecessore di Mancino, N.d.A.], durante la presentazione di un libro, pochi giorni dopo la morte di Falcone, che pensava a lui come nuovo procuratore nazionale antimafia. “Vogliono condannarmi a morte!” E la cosa non gli interessava. Mio padre non era ambizioso. Quel posto era stato creato e concepito per Falcone. Mio padre riteneva che il suo lavoro fosse più importante a Palermo.

Qual è stato il più bel periodo della sua vita?
I sei anni in cui è stato procuratore a Marsala. Dopo la fine dell’istruttoria del maxiprocesso di Palermo, voleva trasferirsi lì per dedicarsi a una mafia che nessuno aveva combattuto. Le forze dell’ordine erano sempre focalizzate sulla mafia a Palermo. In sei anni, mio ​​padre ha dato molto fastidio alle famiglie di Marsala, di Trapani… Una mafia feroce, crudele, quella di Trapani, del super latitante Messina Denaro [l'attuale numero uno di Cosa Nostra, latitante dal 1993, N.d.A.]. Anni dopo, un pentito, Vincenzo Calcara, confessò  a mio padre che aveva talmente “rotto i c…” a Marsala che lui aveva ricevuto l’ordine di ucciderlo. Ma mio padre ha amato quel periodo anche perché a capo della procura era riuscito a vedere crescere attorno a sè un gruppo di giovani magistrati che oggi sono in prima linea. E perché in quegli anni aveva potuto organizzarsi per farci condurre una vita quasi normale. A Marsala viveva solo, sottoposto al regime di sicurezza, ma per noi faceva avanti e indietro a Palermo dove, per vivere normalmente, preferiva non chiamare la sua scorta. In questo modo stava senza vederci per al massimo un giorno e mezzo.

Borsellino in vacanza a Palermo


La famiglia contava per lui più di ogni altra cosa…
Sì, e con ciascuno dei suoi tre figli aveva un legame intenso e diverso. Quando mia sorella Lucia ha vissuto un periodo di anoressia, mentre eravamo sull’isola dell’Asinara, solo mio padre, che sentiva essere la causa della sua malattia a causa del rischio che correva, della sua vita blindata, è stato in grado di farla uscire da quello stato dopo mesi. Aveva capito che mia sorella aveva bisogno di suo padre. Per un po’ ha allentato i ritmi del suo lavoro per dedicarsi a lei. Hanno viaggiato insieme, loro due, a Roma o in altri luoghi. Ha anche chiesto una riduzione della scorta.

Quella scorta da cui talvolta  fuggiva, giusto?
Sì, dopo Marsala, quando è tornato come procuratore aggiunto a Palermo, ne ha sofferto e a volte lo preoccupava… Si allontanava senza che gli uomini se ne accorgessero, oppure semplicemente andava a passeggio con mia madre… Dopo la morte di Falcone, si vedeva sempre una lunga fila di poliziotti davanti a casa, per chiedere di poter integrare la sua scorta. Erano volontari che volevano servire mio padre. Altri no, ed era comprensibile…

Lei non hai mai voluto dirlo, ma ancora oggi la sua famiglia sostiene economicamente quel famoso pentito, Vincenzo Calcara, che aveva confessato a suo padre che avrebbe dovuto ucciderlo…
E’ vero. Per mio padre la generosità vera non ha bisogno di fare sapere da dove viene. Calcara è uscito prima del previsto dal programma di protezione che lo Stato garantisce ai pentiti e si è trovato in condizioni precarie, con quattro bambini piccoli. Mio padre voleva davvero che iniziasse una nuova vita ed è come se ci avesse tramandato il compito di vigilare su di lui. Così gli diamo una mano con l’assicurazione dell’auto, l’affitto, i libri scolastici. Lui mi manda le foto dei suoi figli, tre dei quali si chiamano Lucia, Fiammetta e Agnese, come le mie sorelle e mia madre…

Suo padre avrebbe anche regalato il suo motorino alla vedova di un mafioso?
Questa vedova stava collaborando con mio padre, incaricato delle indagini sul marito. I suoi figli aveva bisogno di un mezzo di trasporto per andare a lavorare in un panificio. Un giorno, mio padre mi disse: “Manfredi, dovremmo regalare il tuo motorino a questa donna i cui figli vogliono andare a lavorare. Dobbiamo fare in modo che non seguano la strada del padre…”. Era il mio primo motorino, non l’ho più rivisto! Avrei capito ciò che questo gesto aveva rappresentato per quella donna solo molti anni dopo.

Quali sono i suoi ricordi dell’attentato contro Giovanni Falcone, il 23 maggio 1992?
Ero a casa a studiare per l’università e mio padre era andato dal barbiere, a piedi, da solo, eludendo la sorveglianza della sua scorta. Lì ricevette una telefonata da un collega. Poco dopo sentii mio padre bussare alla porta, molto affannato, con delle tracce di schiuma da barba sul viso. Io guardavo la  televisione impietrito. Non saprei descrivere l’espressione del suo viso. Si diresse nella sua stanza come se non mi avesse visto. Non gli chiesi nulla, lo vidi cambiarsi. In una situazione del genere non si sarebbe mai presentato vestito male, mi ricordo che indossò una giacca, una camicia, come se stesse andando al lavoro. Trovò soltanto il tempo di dirmi di non muovermi di casa. E uscì in fretta… Mia sorella Lucia lo raggiunse in lacrime al centro di medicina legale. Mio padre la prese fra le braccia: “Non piangere Lucia, non dobbiamo dare spettacolo davanti a tutti ora…” Il giorno dopo fu aperta la camera ardente in un’aula del tribunale, ho trascorso gran parte della giornata con mio padre lì per vegliare i resti di Falcone, accanto a quelli della moglie e della sua scorta. Mi ricordo che non ho fatto altro che piangere. Vedevo mio padre allontanarsi da noi. La notte, poi, sognavo attentati, autostrade che saltavano in aria, edifici sventrati… La vittima era sempre sconosciuta, e mi svegliavo tutto sudato.

Che rapporto aveva suo padre con la paura?
La paura è normale, diceva. La cosa importante è che ci sia anche del coraggio e lui ne aveva da vendere! Le mie sorelle ed io non avremmo potuto avere un padre migliore di lui. Nonostante il suo lavoro, mia madre e noi ci siamo sentiti sempre al primo posto nei suoi pensieri. Fino all’ultima ora della sua vita, quando ci volle dedicare un’intera domenica…

Il 19 luglio Borsellino è a casa della madre per una visita, quando una 126 imbottita con 100 kg di esplosivo lo ammazza assieme a cinque agenti della sua scorta

Il 19 luglio … Come ha vissuto il giorno dell ‘attentato?
Eravamo a Villagrazia, nella casa dei miei nonni materni al mare, a dieci minuti da Palermo. Avevamo dovuto rinuciare ad andarci nelle settimane precedenti perché non era un luogo abbastanza sicuro. Ma quella domenica mio padre decise di non andare al  lavoro. Si svegliò molto presto, come ogni mattina. Diceva ridendo: “Mi alzo alle cinque per fottere il mondo con due ore di anticipo!” La giornata era stupenda, c’era un bellissimo sole. La mattina mio padre è andato a fare il bagno. La scorta lo sorvegliava sulla spiaggia. Dopo pranzo disse che andava a fare un riposino. In realtà trovammo nel portacenere decine di mozziconi di sigarette. Non aveva chiuso occhio.
Poi prese le sue cose, io lo accompagnai alla macchina blindata. Sapevo che doveva andare a trovare mia nonna in via D’Amelio, per accompagnarla dal cardiologo. Mio padre mi salutò con un sorriso, ci saremmo rivisti a casa poco dopo…
Quando ho capito che era successo qualcosa, stavo giocando a ping-pong con un amico, ho visto passare mia cugina, livida in volto. “Cos’è successo?” Sono corso a casa come un robot, il televisore era acceso… Mi sono subito preoccupato per mia madre, le mie sorelle non c’erano. Non so perché prima di uscire ho controllato che la casa fosse chiusa. Ho chiesto ad un amico di portarmi in moto a Palermo, il viaggio di sei o sette minuti sembrò interminabile… Quando siamo arrivati ​​in città, c’erano sirene, vigili del fuoco… Mi ricordo che ho avuto la sensazione di un silenzio totale, di non sentire più nulla. Fino a quando non sono arrivato in via D’Amelio, quando mi è tornato l’udito. Gente che andava e veniva, urlando …
Ho vagato verso il punto dove erano i resti di mio padre. Mi sono imbattuto in uno dei suoi colleghi che mi ha portato via da lì e mi ha accompagnato in macchina al centro di medicina legale… Sono crollato il giorno dei funerali, che abbiamo voluto in forma privata. Non c’erano telecamere. Pochi rappresentanti dello Stato furono autorizzati a partecipare alla cerimonia. Ho trascorso la maggior parte della messa a piangere, in ginocchio. Scalfaro, Presidente della Repubblica, ha cercato di farmi sedere. Non ce l’ho fatta a vedere mio padre. E’ stata mia sorella Lucia ad occuparsi del riconoscimento, a vestirlo. Ci ha detto che è morto sorridendo.

Come siete riusciti a superare tutto questo?
Mia madre ha pagato, fisicamente, tutte queste sofferenze. Le mie sorelle ed io siamo stati fortunati a trovare la forza nel continuare ognuno di noi la nostra strada, di realizzarci da soli, restando sempre uniti a mia madre in tutti questi anni senza mai violare la nostra intimità. Non abbiamo mai voluto andare in giro, nelle scuole, né rispondere alle richieste dei media… La nostra forza interiore deriva probabilmente da lì e dalla nostra fede.

Qual è il ricordo più bello di suo padre?
Il suo sorriso, la sigaretta tra le labbra, le sue battute irriverenti. Mio padre era felice perché combatteva contro Cosa Nostra,  questo tumore che aveva fatto della Sicilia, la sua terra, un mattatoio.

Il giudice Borsellino con i suoi figli, Fiammetta e Manfredi

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